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Chierici Umberto per "Palladio", 1938

Alla Mostra del Barocco Piemontese nel Palazzo Carignano di Torino, recentemente chiusasi dopo un lungo e fortunato periodo di successo, alcune sale raccoglievano una rassegna delle opere architettoniche dei maggiori maestri del Sei e Settecento.

L’esposizione, ricca di disegni, di fotografie, di quadri documentarli dell’epoca era in gran parte imperniata intorno ai due nomi maggiori della architettura barocca in Piemonte: il Guarini e l’Juvarra. Senza discutere sulla importanza preponderante e sulla decisiva influenza che il Teatino e il Messinese ebbero sopra l’arte e gli artisti dell’epoca, e ben comprendendo che una mostra del genere, aperta ad un pubblico vastissimo, non avrebbe permesso di spingere troppo in profondità criteri di carattere scientifico, sarebbe forse stato preferibile che gli architetti minori, di cui molti, se non grandissimi, certo furono ottimi, fossero rappresentati da una documentazione figurativa delle loro opere più vasta e ricca. Crediamo anzi che in tale modo maggiormente si sarebbe messa in evidenza l’opera ispiratrice e l’influenza del Guarini e ancor più dell’Juvarra con possibilità di utili raffronti e paragoni stilistici e formali.
La Mostra aveva inizio con una rapida rassegna degli architetti secenteschi: al centro Guarino Guarini.
Del Teatino erano esposti alcuni minuti ma gustosi disegni di particolari del Palazzo Carignano, gli studi per il Palazzo di Racconigi e per la S. Sindone, tre disegni di progetto per il palazzo dell’abate Graneri, di carattere ancora cinquecentesco, e infine cinque studi di pianta per il Palazzo Carignano di Torino. In questi, già noti del resto, si esprime il tentativo e lo sforzo di superare ogni concetto architettonicamente logico a favore di una pura idea scenografica e fantastica. Dal primitivo studio in cui lo scalone è logicamente se pur banalmente posto verso il cortile, sul fondo e a fianco dell’atrio, secondo l’abituale schema cinquecentesco, il Guarini giunge, dopo una serie di tentativi da cui traspare l’intimo affanno dell'artista per la ricerca di una formula nuova e geniale, a una soluzione (quella poi adottata in costruzione) che, pur bellissima da un punto di vista di novità e di fantasia, appare in netto contrasto con ogni concetto di logica funzionale; la facciata infatti, con la scala che si svolge ad essa aderente nell'interno, viene ad assumere un carattere antitetico con la propria funzione, mentre, d'altra parte, non accenna minimamente, nella sua composizione schematica all’entità architettonica, pur importantissima, ad essa retrostante. Intorno al Guarini i contemporanei e i minori: Ascanio Vittozzi, il Lanfranchi, Ercole di Sanfront, i Castellamonte, e poi alcuni settecentisti secondarii, il Garove, Francesco Gallo, il Michela, il Martinez, rappresentati da opere di scarso valore. Del Sanfront era esposto, riprodotto da una tavola in rame, il progetto per il Santuario di Vicoforte di Mondovì, alla cui costruzione diedero successivamente l’opera loro il Vittozzi e il Gallo (figg. 10, 11, 12). Nel 1585 il Duca Carlo Emanuele bandì un concorso per questo santuario, che avrebbe dovuto essere il Pantheon di casa Savoia. Vincitore risultò il Sanfront, ma il progetto non piacque molto al Duca che ne affidò la rielaborazione al Vittozzi. L’opera dell’orvietano, di chiara ispirazione sangallesca, si arrestò, per varie ragioni, prima dell’inizio del tamburo, e la costruzione rimase interrotta per quasi un secolo. Nel 1729 Francesco Gallo, monregalese, continuò la fabbrica, sostituendo alla cupola un altissimo tamburo coperto da una calotta schiacciata che dà alla costruzione un carattere di pesantezza, accentuato dalle inutili e inerti masse dei contrafforti. L’interno, per la imponenza delle proporzioni e per la serenità dello scomparto architettonico, costituisce forse la parte migliore dell’edificio, sebbene la decorazione pittorica posteriore sia alquanto pesante e affastellata.
Di un altro architetto, Francesco Martinez, che lavorò in Piemonte nella seconda metà del ’700, era esposto alla mostra un piccolo e insignificante disegno di altare. Nipote di Juvarra e messinese anch'egli, architetto regio dal 1773, il Martinez, che fu allievo di Benedetto Alfieri, fa parte di quella numerosa schiera di architetti minori che prepararono, per una certa loro secchezza di tratti e geometrica rigidità di schemi, il nuovo secolo. Pubblichiamo di questo architetto una riproduzione dei disegni inediti di progetto per la chiesa parrocchiale di Albiano di Ivrea, l’unico edificio di carattere religioso che si sappia da lui costruito. Una pianta non bella con tutte quelle escrescenze in forma di cappelle irregolari, che producono sul fianco esterno, obliquo rispetto all'asse stradale, uno sgradevole effetto perla loro asimmetriae per il loro squilibrio volumetrico. Migliore la facciata che nella sua composizione schematica ricorda alcuni studi del Juvarra, specialmente i disegni di progetto perla chiesa del Carmine, mentre l'influenza dell’Alfieri, maestro diretto, si manifesta sopratutto nella minuta, esatta e un po asciutta trattazione delle modanature, nelle finestre e nelle porte. Le maggiori cure il Martinez rivolse all’interno, onesta ed equilibrata opera di buona architettura, in cui l'influenza dell’Juvarra riecheggia più da vicino, nella lineare e serena correttezza delle forme e dei motivi e nello slancio leggero della cupola ad alto tamburo, che però non fu mai costruita (figg. D 7. 8, 9).
Due sale della Mostra erano riservate a Filippo Juvarra, con grande ricchezza di disegni, fotografie, quadri, autografi, commenti. Una esposizione dettagliata ed esauriente dell’opera del Messinese fin dai primi progetti per il S. Filippo di Napoli del 1706. Accanto alla stupenda chiesa a pianta centrale, ideata in occasione dell'ingresso dell’architetto all'Accademia di S. Luca, erano esposte due magnifiche vedute di Roma, provenienti dal Museo di Roma, e quindi fotografie di studi e sistemazioni varie per il Campidoglio, per il Teatro Ottoboni, per la Cappella Antinori a S. Gerolamo alla Carità, per il Palazzo del Langravio d’Assia Cassel. Subito dopo, quasi a segnare la continuità ideale dell’opera del Messinese, gli studi e le piante per Superga, i disegni e gli schizzi per la Chiesa di S. Uberto, per il Palazzo Madama, peril Castello di Rivoli, del quale la Biblioteca Nazionale d’Arte di Berlino aveva inviata la bellissima prospettiva originale del 1723, e che insieme al « Palazzo in Villa per 4 personaggi» trovava qui una completa documentazione iconografica. Non molto piacevole, in questa prima sala juvariana, l’effetto di insieme di alcuni ingrandimenti fotografici, in cui la finezza del tratto a penna o a lapis assumeva la grossolana apparenza di un disegno a carbone. Più interessante la seconda sala per il carattere di maggior novità delle opere esposte, sconosciute o poco note: un minuto ed esatto disegno per l'Archivio di Stato di Torino, le tavole del già citato « Palazzo in Villa » poderosa opera di fantasia poco attuabile, i bellissimi schizzi e le scenografie inviati dalla Kunstbibliotek e dal Kupferstichkabinet di Berlino, e le due note facciate di chiesa a Napoli degli Uffizi. Interessantissimi infine in questa sala undici volumi di disegni autografi, dal 1706 al 1735, di cui presentiamo alcuni saggi dei meno noti (figg. 1, 2, 3, 4, 5).
Con Filippo Juvarra la Mostra era praticamente chiusa; pochi i disegni esposti di Bernardo Vittone e di Benedetto Alfieri, due dei più fecondi e significativi architetti del Settecento in Piemonte. Bernardo Vittone torinese, studiò a Roma, presso l'Accademia di S. Luca, e tornato a Torino nel 1733 costruì nel Regno un numero grandissimo di edifici religiosi. Dopo l’Juvarra è forse il maggiore degli architetti Piemontesi settecenteschi, sebbene il suo carattere esuberante e scenografico, e gli studi fatti a Roma, lo portino più verso forme e concezioni seicentesche borrominiane o guariniane che non verso la snella eleganza rinnovatrice del Messinese. Lo schema preferito dal Vittone nella progettazione delle chiese è il tipo a pianta centrale perlo più ellittica o rotonda, con cappelle periferiche, tipo che egli svolge in numerose varianti, ora giuocando, nella pianta, su un complicato intrico di curve e controcurve, come nel santuario del Vallinotto in Carignano di chiara ispirazione Guariniana fin nella doppia cupola (fig. 6) a striscie murarie intrecciate, o nella Santa Croce di Villanova di Mondovì, o nella parrocchiale di Grignasco; ora seguendo modelli più nettamente borrominiani come nella parrocchiale di Cambiano (fig. 13) del 1740-41, la cui bella facciata, viva e movimentata nel giuoco delle superfici e dei chiaroscuri sembra quasi la traduzione provinciale di una chiesa di Roma. Tutta l'opera di Bernardo Vittone si esprime in una continua ricerca di effetti architettonici e scenografici attraverso le più diverse forme di piante centrali, ellittiche, rotonde, a croce greca, poligonali, per lo più sormontate da cupole basse con brevi tamburi. Sebbene in uno dei suoi trattati di architettura, si professi discepolo entusiasta dell’Juvarra, il Vittone rimane coni suoi schemi, con le sue forme, con la decorazione delle sue chiese, ancora così ricca di motivi esuberanti e complicati, un ottimo secentista ritardatario. Di Benedetto Alfieri, architetto regio, autore fra l’altro del Palazzo Ghilinidi Alessandria, su schema dell’Juvarra, e della famosa chiesa a ventaglio di Carignano, era esposto alla Mostra un disegno per un campanile e un bel progetto, riprodotto da un rame, di rifacimento della facciata del Palazzo Reale di Torino.
Dopo il Vittone e l’Alfieri, chiudevano la rassegna alcuni dei settecentisti tardi e minori: il Quarini, Carlo Re, il Rana, Luigi Barberis, Giovanni Sezzano, con modeste opere di vario genere.
La sezione di architettura alla Mostra del Barocco Piemontese non ci ha dunque detto una parola nuova, nè lo poteva, dato il carattere necessariamente ristretto che ha dovuto assumere nel grande quadro della rassegna di due secoli d’arte: gli organizzatori si sono fermati sui nomi e sulle opere maggiori, e sopratutto su Filippo Juvarra, che della sua arte ha permeato tutta la vita architettonica di un secolo in Piemonte. Vorremmo ora augurarci che, in futuro, venisse affrontato e risolto in pieno il problema di una mostra completa della sola architettura barocca in Piemonte, bella pagina, ancora in gran parte, sconosciuta dell’arte italiana.
Chierici Umberto, Appunti sull'architettura alla mostra del barocco piemontese, in "Palladio", 2, 1938, pp. 55-62


1937 - Mostra del Barocco Piemontese


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