Il Pubblico
Fra i tanti meriti che avrà avuto la Mostra del Sei e Settecento piemontese apertasi in Palazzo Carignano a Torino il 19 giugno di quest’anno con l’augusto intervento di S.A.R. il Principe di Piemonte, e fra i molti ammaestramenti che, con un allestimento perfetto, ci avranno procurato i suoi organizzatori capeggiati dal dott. Vittorio Viale e spronati dall’animosa volontà dell’ing. Ugo Sartirana, Podestà di Torino, uno va considerato con particolare attenzione, anzi, dev’essere senz’altro segnalato come primissimo. Meglio ancora della singola bellezza e squisitezza degli oggetti esposti, più ancora del godimento culturale d’aver finalmente sott’occhio, nello spazio di una cinquantina di sale, un panorama completo della pittura, della scultura, dell’architettura, della scenografia, delle arti decorative (cioè di quanto riflette il costume e la vita estetica di un popolo) in Piemonte fra l’inizio del secolo XVII e le soglie dell’Ottocento, vale infatti la dimostrazione piena e convincente dell’unità di gusto e di stile che informò per circa duecent’anni – fra la gente subalpina – queste così varie e leggiadre attività dello spirito.
Il fatto ha un’importanza grandissima: perché è la prova più persuasiva della coerenza assoluta fra sentimento ed azione estetica, fra ambiente morale ed operosità intelluttuale: coerenza che, quando è perfettamente raggiunta da un popolo e da un’età, rende artisticamente felice tutto un periodo di attività poetica, riesce a definirla in ogni suo aspetto, salda ogni dissidio di forma e contenuto, lascia tracce indelebili e inconfondibili in qualsiasi manifestazione dell’intelligenza, crea insomma, con sicurezza costante e con ordine armonioso, quella suprema entità dell’arte che è lo stile, insopprimibile eco – diresti – in ogni atto della mano d’un vigilante modo d’essere del pensiero.
Fra lo stile ed il costume quasi non esiste distanza: e se le grandi età dell’arte, anche dopo secoli, ci appaiono così chiare e limpide, vere e proprie architetture dell’intelletto, ritmi grandiosi composti in sinfonia totalitaria ed inscindibile, lo si deve appunto a questa determinazione stilistica, a questa corale sua rispondenza con una psicologia collettiva che supera lo stesso individualismo dei grandi ingegni, delle menti eroiche che guidano e piegano le sorti dell’umanità. Se a dire Trecento o Settecento, Quattrocento o Cinquecento, tanto netto ci appare il blocco culturale dei rispettivi periodi storici, ciò precisamente dipende dall’assoluta unione fra tono di vita e qualità di intelligenza; mentre nelle epoche indeterminate e incerte sempre sarà possibile ritrovare una scissione e uno stridore, una manchevolezza ed un contrasto, un’inquietudine e una incompletezza fra stile e costume.
Giova insistere su questo binomio arte-costumecome sul più sicuro riferimento per capire la Mostra di Palazzo Carignano ed accogliere la sua grande lezione di storia dell’arte piemontese. Sia nelle sale del maestoso edificio guariniano, sia in quelle del Civico Museo di Palazzo Madama che col delizioso complesso della Palazzina di Caccia di Stupinigi scompletano la rassegna storica torinese, è sotto specie di “spettacolo”, di apparato scenico in cui la finizione artistica sceglie e raduna dalla vita gli elementi più acconci, più vistosi e tipici per proiettarli, sintetizzati, in una sorta di rappresentazione teatrale ora leggiadra fino alla svenevolezza, ora fastosa fino all’ampollosità, ma sempre supremamente pittoresca, ricca, cangiante, estrosa, e in ogni minimo particolare improntata da un desiderio, quasi una smania, di originalità inventiva, di individualismo capriccioso – è, diciamo, sotto specie di “spettacolo” che ci conviene osservare i due secoli che anche in Piemonte si definiscono “barocco” se pur qui da noi il termine, per natura misurata di gusti ed istintivo equilibrio di sentimenti, venga parzialmente svuotato del suo senso più enfatico, e si riduca a corrispondere ad un periodo stilistico non di molto superiore ai cent’anni. Spettacolo s’è detto: meglio, forse scenografia. Non casualmente l’unico abbozzo di studio critico sulla pittura settecentesca torinese, quello di Laura Rosso (La pittura e la scultura del ‘700 a Torino), muove dalla scenografia; e la sua autrice può scrivere che la scenografia appunto si rivela la figlia più genuina dell’atmosfera spirituale del Seicento e del Settecento, quasi il tratto di congiunzione di tutte le arti del tempo, quasi il simbolo più caratteristico del senso estetico di quei due secoli: “Il melodramma trionfa consciamente e inconsciamente non solo sul teatro, ma nella vita, ed altera il senso delle proporzioni, delle persone e delle cose; tutto è visto e concepito come in uno sfondo teatrale, sbalorditivo di magnificenza; la vita pubblica e la privata, la vita diplomatica, la parata militare e le funzioni religiose. Il costume, per essere idealmente proporzionato a questo scenario, cerca ed attua ampliazioni di linea e pompa di particolari ed il gesto delle persone diviene magniloquente e solenne come se dovesse essere percepito e applaudito costantemente da una platea”.
Giustissimo: ed il binomio arte-costume si fa così inscindibile. Arte, quale rappresentazione figurata, messinscena di un teatro ideale che comprende il mondo; costume, quale espressione dell’ambiente che codesta regia fa possibile perché strettissimi corrono i rapporti di comprensione reciproca da palcoscenico a platea, sì che tra questa e quello tracciare un limite, è, ripetiamo, estremamente difficile. E v’è del resto, di questo fenomeno psicologico e artistico insieme, un esempio evidentissimo alla Mostra, nel quadro del Pannini prestato dal Principe di Piemonte per prender posto nella saletta tutta dedicata al Juvarra. Il gran quadro rappresenta il Castello di Rivoli come avrebbe dovuto risultare, con la sua spettacolosa facciata, con l’atrio immenso, con tutta la complicata macchina di scalee, ripiani, cordonate, giardini pensili sul prospiciente terreno in declivio, dal progetto di rifacimento ordinato da Vittorio Amedeo II. La pittura non è infatti che la riproduzione fedele di un famoso e splendido disegno del Juvarra stesso, ed è, ad osservarla bene, divertentissima. Salgono su per le gradinate monumentali o giungono al galoppo dai viali fioriti dame e cavalieri, uomini di Corte ed impennacchiati ufficiali. L’insieme è lieto e festoso, pittoresco e amabile. Ma per scorgere in esso lo spirito del secolo, conviene guardare giù in basso, dove piccini piccini sul margine della scena, stan due personaggi, veri protagonisti del dipinto: l’abate siciliano che spiega al pittore piacentino il fantasioso concetto che avrebbe dovuto dare al Piemonte un castello rivale di Versailles. Entrambi son lì che ragionano di così nel sogno architettonico purtroppo rimasto inattuato per mancanza di fondi: entrambi ci si presentano come attori bonari della loro stessa azione inventiva, ed intanto come osservatori compiaciuti del divertente spettacolo che loro medesimi, con la loro immaginazione artistica, si offrono.
Orbene, a voler generalizzare da un aneddoto pittorico tutto uno stile di vita si potrebbe dire che il Settecento, al pari del Seicento, è il secolo in cui gli uomini agiscono e si guardano agire, in cui sono protagonisti e spettatori insieme della loro azione, realizzando perciò la completa fusione fra arte e società, tra realtà e finzione. Fenomeno, questo, che mentre spiega il trionfo della scenografia e il gusto del teatro eroico, mitologico, fiabesco del periodo barocco, giustifica quella perfetta unità stilistica, quell’armonioso concomitanza di sforzi e di modi espressivi che caratterizzano il tempo compreso fra gli ultimi bagliori del Rinascimento ed il primo apparire di quel compromesso culturale dal quale doveva nascere il gelido Neoclassicismo.
Ma chi abbia occhi per vedere i caratteri estetici limpidamente dichiarati dalla Mostra torinese, scopre anche altre ragioni, forse più precise e comunque altrettanto imperiose, dell’accennata unità stilistica. Siamo infatti nei secoli in cui l’ingegno creativo, le facoltà poetiche nell’ambito plastico, cominciano a divulgarsi, a generalizzarsi, a livellarsi in una più ampia comprensione pubblica: quella comprensione che spiega il perché, poniamo, delle bambocciate del Graneri e dell’Olivero, e la amenità discorsiva della pittura del Cignaroli. È forse questo il primo passo verso una “democratizzazione” (fenomeno tipicamente moderno) delle possibilità inventive dell’arte e dell’attitudine delle masse a goderne. Ciò avviene ancora, si capisce, in un’atmosfera privilegiata, in una cerchia di élites (però sempre più vaste), così come, in altro campo, poté essere a modo suo rivoluzionaria l’Enciclopedia; ma per quanto limitato ad una nobiltà e borghesia benestante il fenomeno non sminuisce la sua importanza. Insomma, al fatto arte – un’arte intesa nel senso umanistici di supremazie individuali, di veri e propri culmini della pittura, della scultura, dell’architettura, alti spazianti sopra una folla quasi estranea e sullo spicciolo artigianato – gradatamente subentra il fatto gusto. ed è un gusto che dal dipinto va all’arazzo ed alla stoffa, dalla statua va alla maiolica, alla miniatura, al ventaglio e a cento piccole galanti bagattelle deliziose, dall’architettura va alla scenografia e all’apparato da festa e al carosello, e quindi via via dilaga al mobile, al paravento, al parafuoco, all’alare, al lavabo, alla ventola, allo zoccolo dipinto o intagliato. In tutte le case abbienti questo desiderio d’ornato si diffonde. Processioni e funzioni religiose partecipano a questa velleità di splendore; il linguaggio stesso militare e quello degli editti è permeato di un senso pittoresco, ora aulico, ora iperbolico, che adorna di svolazzi le verità più umili. Tutti comprendono questo linguaggio ormai divenuto universale; tutti gustano la bellezza che ormai si è fatta – ed il rinnovamento edilizio lo conferma – una necessità pubblica cui i Sovrani non restano indifferenti, tanto che alle loro Corti chiamano architetti, pittori, scultori non più per un orgoglio personale, per un prepotente individualismo come ai tempi della Rinascenza, ma perché anche lo splendore artistico è divenuto mezzo di governo, un’accortezza politica; tutti applaudono e vogliono l’espressione ultima della moda, cioè di quel che passa e cangia, e di per sé è necessariamente frivolo. Perciò l’arte come non mai si fonde col costume, l’una è specchio dell’altro, l’uno dall’altra prende esempio. Ormai l’arte è un fatto di masse, e non v’è stupore allora che le vette si abbassino alle valli, anche se queste valli ci appaiono amene, deliziosamente fiorite, amabilmente abitabili.
Ciò si verifica nell’era barocca in tutta Italia; ma dire che neppure in Piemonte si sfugge alla legge è – come la rassegna torinese dimostra – troppo poco. In Piemonte è dal finir del Cinquecento che la Dinastia regnante s’è consolidata nelle persone di grandi sovrani. Guerre e vittorie, sconfitte e calamità, ambizioni di Principi ed acquisti territoriali, abilità politiche e provvidenze popolari hanno stretto legami fortissimi fra la Casa regnante e la gente governata. Possono esservi state parentesi di lotte civili, ma il popolo non ha mai rinnegato i suoi monarchi: a questi la nobiltà è fedele, anzi ne è l’emanazione, e non sussiste fra Sovrano e feudatari il dissidio su cui si impernia la gran lotta per l’unità politica francese della quale è protagonista Richelieu. Il Piemonte veramente per due secoli fa blocco intorno ai suoi Principi (e lo farà fino ai moti del ’21), i quali sono l’esempio del popolo: anche quando questo popolo soffre e vorrebbe sosta al continuo guerreggiare. Durante i due secoli barocchi quando si dice Piemonte, si dice Casa Savoia. È questa una realtà che conviene tener presente se si vuol comprendere il perché dell’unità dell’arte piemontese nel Sei e nel Settecento, unità che ha riscontro in Francia nel lungo regno dei due Luigi, ma che forse invano si ricercherebbe in altri Paesi d’Europa. Tutto ciò quindi che il Piemonte realizza in questi duecent’anni, lo realizza attraverso la Corte; e non soltanto perché è il Sovrano sabaudo a volere gli ampliamenti torinesi (Piazza San Carlo o Via Po, Via Nuovo o Zona dei Quartieri) in cui urbanistica e architettura si fondono nelle menti dei Castellamonte, dei Vittozzi, dei Juvarra; ma perché la Corte serve di modello alla nobiltà e al clero e i Barolo, gli Ormea, i Granieri, le curie, le confraternite e giù giù fino ai piccoli privati, tutti guardano a ciò che fa il Principe, sia con un’ambizione di emularlo, sia con un sospiro di rammarico che segna l’enorme divario dei mezzi e delle possibilità. Girate per questa Mostra, e dappertutto, palese o velata, vedrete l’impronta regale; sì che giustamente gli allestitori hanno creato all’esposizione una specie di “prologo” sabaudo con alcune salette che documentano la saggezza del governo, la espansione territoriale, i costumi militari, le provvidenze economiche, l’azione legislativa. Vedrete quest’impronta fin nel lavoro dell’artigiano anonimo; e la vedrete soprattutto nel tono aulico che informa ogni individuale attività artistica, sia che quest’attività risponda al nome di un Guarini, d’un Juvarra, d’un Martinez, d’un Alfieri, sia che risponda al nome d’un Piffetti o di un Beaumont. Aulica è l’arazzeria reale, aulica è la produzione della ceramica, aulica è l’architettura, e soprattutto la scultura: soltanto, forse, si sottrae a quest0imperio la pittura perché produzione più “economica”, più borghese ed adatta alla casa borghese; e con essa, naturalmente, l’artigianato della tessitura e del mobile corrente.
Si verifica dunque anche in arte – in Piemonte – l’esempio di un assolutismo illuminato, di un paterno governo che fa sentire la sua autorità su ogni forma dell’operosità artistica. Ciò potrebbe intristire l’estro, creare una specie di musoneria nella fantasia. Ma troppa libera, sbrigliata, feconda domina l’immaginazione nell’età barocco perché questa minaccia si traduca in fatti. Tutto si limita (aiutando le innate qualità del popolo) ad una certa contenutezza dignitosa che vieta le iperboli e gli eccessi, quasi l’etichetta di Corte guidasse anche la mano dell’umile scolpitore, del semplice vasaio: e ad una misura nell’ideare e nell’eseguire, quanto mai proficua in quel tempo di sregolatezze. Se il Seicento ed il Settecento sono il trionfo dell’arte piemontese; se in nessuna parte d’Italia si crearono in quei secoli esemplari d’arte decorativa di tanta bellezza, purezza, sobrietà, ciò è dovuto, sì, in gran parte, all’equilibrio morale della gente piemontese, alla sua dignità costante anche nelle cose dell’intelligenza; ma lo si deve anche al fatto che l’arte barocca piemontese è lo specchio di una unione profonda e feconda fra monarchia e popolo. Non crediamo di errare affermando che Filippo Juvarra non sarebbe quel purissimo artista che è, quel mirabile e cauto decoratore che si palesa in cento architetture, se invece di operare per oltre quindici anni in Piemonte a soddisfare il gusto di un Re e di una nobiltà poco propensi alle ampollosità meridionali, avesse seguitato a lavorare a Roma o addirittura avesse anticipato la sua emigrazione a Madrid.
Quest’unità, questa compattezza, questa prudenza che sono specchio d’un ambiente particolarissimo politico e sociale, sono altresì il pregio dell’arte barocco piemontese. Tutta la Mostra di Palazzo Carignano illumina questa verità, e, ciò che più conta, la diffonde fra quanti (che son moltissimi, anzi troppi) ignorano questo periodo felicissimo dell’arte in Piemonte, e la sua importanza nelle contemporanee correnti architettoniche e decorative non solo d’Italia ma d’Europa.
Uno stile unitario, omogeneo, dai caratteri di sobria eleganza, di moderata ornamentazione, di sagace equilibrio espressivo, domina dunque l’intera arte barocca in Piemonte. Schiere di maestranze abilissime, educate dal lavoro di Corte o presso le grandi famiglie patrizie, sulle orme del Piffetti, del Cassetta, dei Plura, del Galletti, del La Volè, del Ravelli, del Vaglio, del Tandardini, del prodigioso Bonzanigo (e doveroso è qui un accenno all’opera del torinese Giusto Aurelio Meissonnier, che Enrico Thovez opportunamente battezzava “un genio provinciale” rivendicandogli la maggiore influenza alla Corte francese “nell’imprimere allo stile della Reggenza il suo carattere fantasioso e sbrigliato”), producono i mirabili esemplari che son l’autentica meraviglia di questa Mostra ove nulla è stato trascurato per valorizzare l’operosità di codesti mobilieri, intagliatori, stuccatori, intarsiatori. E non è necessario che tali esemplari rechino firme e comunque li accompagni una documentata paternità illustre. I pezzi anonimi qui gareggiano in bellezza, in squisita preziosità coi pezzi di cui si conosce autori e storia. Né v’è da stupirsene. Si veda la sala dei saggi di “capi d’opera” di minusieri torinesi del secolo XVIII: linee d’una purezza egregia, d’una fermezza disegnativa portentosa, d’una sicurezza d’esecuzione eccezionale. Si veda l’incomparabile Galleria delle Stoffe sulle quali il ricamo ed il trapunto sono altrettanti piccoli prodigi di fantasia ornamentale ed il colore raggiunge raffinatezza di tinte e di toni adeguabili alla più alta scienza pittorica. Quindi si passi alle vetrine degli argentieri (quei medesimi che nel 1678 si rivolgevano alla Duchessa Reggente per ottenere la miglior tutela del loro lavoro allontanando dalla loro “università” o corporazione gli elementi meno idonei, come si riscontra da un interessante documento qui esposto), dei ceramisti, dei rilegatori, dei medaglisti. È un artigianato superbo che ha lasciato tracce di sé in due secoli; è una perizia di botteghe, maestri ed apprendisti, assolutamente esemplare che si rivela nel niello e nella cottura, nell’industria serica e nella doratura del cuoio a piccoli ferri. Chi ha cesellato e battuto le stupende argenterie che ha mandato il Museo di Storia dell’Arte di Vienna (appartennero forse a Eugenio di Savoia?), la gentilissima piccola zuppiera prestata dal Principe di Piemonte? Chi ha ottenuto i viola pallidi ed i verdini acerbi, così graziosi, così ridenti, che sfumano sotto le vernici dei piatti da servizio, delle chicchere, delle scodelle, uscite dalle mani dei maiolicari piemontesi? Chi ha fornito alle statuine di Vinovo tanta arguta bonomia e così piccante umorismo? Ce lo dirà forse Vittorio Viale nel catalogo; ma più che i nomi qui contano la tradizione di un lavoro perfetto, la pazienza amorosa nel compire e nell’ornare, il segreto di una rifinitura diligentissima trasmesso da padre a figlio, da insegnante a discepolo e poi smarritosi con l’inizio della grande produzione in serie, col venir meno di un corporativismo artistico in cui il più umile artigiano sentiva la responsabilità del proprio operare e, nel suo intimo, l’orgoglio della propria personalità.
Questa concomitanza di sforzi, questa coscienza del mestiere che non sminuisce ma l’originalità della fantasia, sono il vanto dell’arte barocca piemontese. Più deboli che altrove sono da noi le tradizioni della grande pittura, della grande scultura, della grande architettura: tanto che, come non è possibile il sorgere in Piemonte d’un Piazzetta o d’un Tiepolo o d’un Guardi, prima è un modenese, il Guarini, poi un messinese, il Juvarra, ad imporre i moduli più seguiti nella costruzione. Tolto nell’architettura il troppo ignorato Bernardo Bittone e nella pittura Pier Francesco Guala e il Cignaroli, tolti nella scultura i due Collino, il Piemonte non può annoverare grandi ingegni artistici autoctoni. È una deficienza grave se si considera il complesso dell’arte barocca piemontese? Come benissimo ha scritto Ugo Ojetti citando le parole del vecchio Lanzi – “il Piemonte non ha un’antica successione di scuola come hanno altri Stati” – “questa stessa mancanza, se si considera il valore di rappresentanza e di decorazione dato allora dall’insieme delle arti, diventa una qualità. A Palazzo Madama, all’Accademia Filarmonica, al pianterreno di questo Palazzo Carignano, nella villa di Stupinigi pittori senza muscolo e senza nervo come il Cignaroli, il Raoùs, il Galliari, il Molineri, l’Olivero diventano decoratori squisiti e intonati. Talvolta anzi riescono dentro la loro gentile calligrafia scolastica a una improvvisa sicurezza di documento, come il Dauphin nei due quadri di giostre a cavallo usciti da Venaria Reale, e specie in quello dove ritrae Emanuele Filiberto il Muto e il suo volto arguto e caparbio; come l’Olivero nelle tre alte tele con scene di costumi di Sardegna, dipinte pel ministro conte Bogino che della Sardegna fu un vero e paziente patrono”.
È così che nella Mostra torinese, fra gli splendori del mobile, dell’argento, del tessuto, della ceramica, dell’intaglio, dello stucco, la pittura e la scultura possono apparire in semplice funzione complementare. Ma anche su questo punto conviene andar cauti. Nocquero certamente alla scultura piemontese l’ambiente aulico – di Corte – in cui essa dovette manifestarsi, la quasi impossibilità di uscire all’aperto, nelle piazze, ad assumere carattere monumentale, e lo scarso sviluppo di una ritrattistica non puramente “ufficiale”. Si salvano Filippo ed Ignazio Collino soprattutto con le festose statue di Vittorio Amedeo II e di Carlo Emanuele III, quantunque anche qui la profusione del particolare soffochi il nativo vigore della plastica; si salva Felice Cassini col suo Gesù Crocefisso tolto alla chiesa dell’Addolorata di Casale, perché un scentismo robusto e schietto, quasi rude e paesano anima quel legno e gli impedisce di cadere nelle leziosaggini che si riscontrano nel Cristo risorgente in cartapesta dipinta, d’autore sconosciuto, che viene dalla Basilica Magistrale di Torino. Ma se si osservano i grandi Angeli, la Madonna, la Tomba del duca Broglia del San Carlo torinese, dei Carlone, i busti freddi, accademici di Bernardo Falcone raffiguranti sotto le sembianze di Apollo e di Diana Carlo Emanuele II e la Duchessa Maria Giovanna Battista, la Trinità con Santi di Stefano Maria Clemente e gli stucchi del Bernero, vien fatto di preferire lo schietto anonimo, il lavoro dell’artigianato, qual può manifestarsi nell’elegante Atteone, statua da giardino esposta accanto alla famosa peota costruita a Venezia per Carlo Emanuele III. Del resto il Clemente stesso non diventa miglior scultore quando si fa artigiano e crea i bassorilievi in legno dorato della chiesa di San Domenico? Ad un ignoto conviene rivolgersi per la più bella scultura della Mostra: l’affascinante, suggestiva statua di Ignazio Carroccio, marmo scolpito con rude franchezza, con ardito movimento ed intensa intuizione psicologica sul principio del Settecento: perché nella Madonna dell’astigiano Groppa, negli Angeli portatorce di Francesco Ladetto e nel San Giulio e nei grandi Angeli del suo contemporaneo Carlo Berretta più ancora che alle qualità scultoree è alla perizia della fondita ed alla gustosità della materia trattata con tecnica insuperabile, che tu guardi ed applaudi.
Ma per la pittura s’ha da tenere altro discorso. Rude e provinciale nei primi secentisti, con un che di stentato e persin di goffo nel Nicola Musso (morto circa il 1620) dell’Assunta, già si fa più libera ed abile, sensibile ai grandi schemi tizianeschi e raffaelleschi con Giovanni Antonio Molineri tanto nelle Stigmate di San Francesco deL Sant’Andrea di Savigliano quanto nella Deposizione del San Dalmazzo di Torino; e del resto lo stesso Musso ha sputi caravaggeschi nel suo San Francesco ai piedi del Crocefisso, quantunque gli intenti pittorici siano tesi ancora al puro effetto luministico. Ma se Bartolomeo Garavoglia è affastellato, pesante, d’un tintorettismo mal digerito nel Miracolo del SS. Sacramento della chiesa torinese del “Corpus Domini”, ecco Andrea Pozzo, di Trento, presentarsi con personalità interessante, delicata, fantasiosa, aerea nei Re Magi e soprattutto nella Fuga in Egitto della Congregazione dei Mercanti di Torino, con tratti lineari, nei contorni, da grande scuola, con delicatezze d’una ingenuità commovente, e sfumature che farebbero pensare ad influssi emiliani e veneti.
Pienamente radicato nel Cinquecento è Antonio d’Enrico, detto il Tanzio da Varallo; ma il senso tragico della composizione serrata del Martirio dei Francescani in Giappone potrebbe appartenere ad un secentista spagnuolo, ed è questa sua rudezza sommaria a fare di lui un artista avvincente, un provinciale tanto burbero quanto intelligente mantenutosi immune da influenze.
Per tutto il Seicento un senso paesano e quasi scontroso sembra dunque dominare la pittura in Piemonte. Artisti di media levatura che tuttavia son forse da preferire ai pittori aulici tipo Claudio Beaumont, fornitore di magnifici cartoni per arazzi, ma non dissimile dai mille pittori italiani di gran macchine religiose, Assunte, Deposizioni, Sacre Famiglie, Martirii e via dicendo, che per tutto il Settecento da Bologna a Napoli, da Genova a Roma, produssero centinaia di chilometri di tele per adornare chiese e per popolare – oggi – ahimè, musei. Non è dunque nella pittura ufficiale che s’ha da ricercare il meglio della pittura barocca e rococò in Piemonte. Meno conta l’abilità di un Van Loo, d’una Clementi, d’un Fiamminghino, d’un Garola, d’un Lanfranchi, che non la leggerezza e piacevolezza decorativa d’un Dauphin, o la bonaria semplicità d’un Olivero e d’un Graneri. Son questi due ultimi con le loro bambocciate ingenue, che rammentano quelle dei seguaci bresciani del Pitocchetto, son questi nostri due Longhi in diciottesimo, narratori di scene popolari, d’episodi di strada e di piazza, d’avventure, di risse, di burle, di stravaganze d’ogni genere, descrittori di mercati e di fiere, caricaturisti di ciarlatani e di cavadenti, ad impersonare il medio spirito borghese della Torino, del Piemonte settecentesco. A guarda questi loro quadretti (e li si guarda con una commozione di sapor gozziniano) ben si capisce che quella era la pittura “di moda”, come di moda era la cineseria di certi salotti in fondo ai bui corridoi delle grandi case patrizie. Tutto un senso di vita intima, familiare, con punte d’arguzia e venature di sentimento, risorge dinanzi ai nostri occhi; e si vede il marchese d’Ormea passeggiar gravemente sotto i portici, si comprende l’affettuosa indignazione di Torino bombardata dai francesi al momento in cui le Duchesse stanno per lasciare Palazzo Reale, s’intende meglio la semplicità sublime del sacrificio del minatore Pietro Micca. Un passo più in là in queste pitture, e dietro ai volti apparirebbe l’immortale maschera di Gianduja; ma il passo non è compiuto e l’aneddoto non degenera ancora nella risata plebea.
Certo dalla narrazione dipinta di costoro alla pittura vera e propria del Guala la distanza è enorme. Egli domina la pittura piemontese del Settecento con una maestria, con una maturità nella composizione e nello sfruttamento del tono che stupirebbe nel chiuso ambiente subalpino, se non si dovessero ricercare in lui motivi e modi, ispirazioni e stili chiaramente veneti e specificatamente piazzetteschi. Ugo Ojetti per lui ha fatto il nome dello Strozzi. Ma nell’Esther e Assuero il movimento delle figure è decisamente alla Piazzetta, come quei cilestri, verdi pallidi, bruni e marroni luminosi come per velati fuochi interni. Tutta la sua forma è in funzione di luce, e pare un’eco della forma tiepolesca. Fu il Guala a Venezia e frequentò forse quella scuola del Piazzetta (di lui anziano di circa sedici anni) per la quale passarono innumerevoli giovani? Di fronte a certi suoi quadri come l’Assunta si sarebbe invogliati a crederlo. O bastò, a Bologna dove pare egli si sia recato, l’influenza del Crespi, cui non fu estraneo il Piazzetta stesso? Tra i molti meriti della “personale” del Guala allestita in Palazzo Carignano è anche la serie dei problemi che queste pitture, dal troppo vasto Miracolo di San Domenico ai noti Canonici di Lu, dal bozzetto per la Battaglia degli Albigesi ch’è come un tratto d’unione tra le classiche battaglie venete cinquecentesche e le battaglie fiamminghe ed olandesi dei due secoli successivi, ai vivacissimi ritratti di prelati ed avvocati, suscitano e propongono allo studioso. La pittura del Guala esige una valorizzazione ed una divulgazione che soltanto ora possono avere inizio.
Non così s’ha da dire di Vittorio Amedeo Cignaroli, senza confronti più noto del Guala non foss’altro che per la piacevolezza decorativa del suo generismo paesistico. Ma noto in qual modo? Precisamente come un decoratore, pregiato dagli antiquari per la qualità “vendibile” della sua pittura. Orbene, la sala che Vittorio Viale ha dedicato a questo squisito paesista piemontese è un gran servizio reso alla storia della nostra pittura regionale. È nel Cignaroli l’inizio di quella coerenza sentimentale che informerà la pittura paesistica piemontese dalla fine del Settecento fino alla Scuola di Rivara. Vedute di valli e di pianure, giardini e parchi, scene campestri, idillii, pastorellerie: d’accordo. Ma si guardi ad esempio la Valle prealpina. Nulla ha dimenticato il pittore, tutto ha voluto ritrarre, cercando nella sua invenzione il completamento della realtà naturale: il fiume, la selva, il castello, i bovi che s’abbeverano, il pastore col cagnuolo, la pastorella che sospira l’intrecciarsi d’un amoretto, la gran valle colle montagne nevose, la chiesa sul poggio, il paese con lo snello campanile. Ingenuità? Non lo neghiamo. Tutto è falso per convenzione di composizione, ma tutto è vero per l’amore con cui il particolare è osservato e ritratto. Occorrerà attendere ancora per trenta o quarant’anni il punto di fusione fra questo vero e questo falso, il superamento della fantasia e del discorso nella sintesi d’una autentica poesia. Ma ciò non toglie che in questa come in altre pitture cignarolesche sia l’embrione della pittura ottocentesca piemontese. Un rassodarsi del particolare paesistico, ed avremo l’Azeglio; un rinsaldarsi del tessuto pittorico, ed avremo Edoardo Perotti. E non occorrerà un eccessivo sforzo per giungere a certi “lontani” tipici di Marco Calderini: anche se questo sforzo rappresenti il superamento di un secolo di distanza. Quando il pittore anticipa così l’opera dei posteri, proprio dev’essere considerato soltanto per una pretesa “piacevolezza”?
Ciò che fu l’arte decorativa e la pittura piemontese dell’epoca barocca, ecco la grande dimostrazione culturale della rassegna storica allestita in Palazzo Carignano. L’architettura piemontese del periodo corrispondente non poteva, com’è ovvio, essere racchiusa in un’esposizione. Si poteva semplicemente documentare, con fotografie e soprattutto con disegni poco noti, l’opera dei grandi architetti che operarono in Piemonte nel Seicento e Settecento: Guarini, Vittozzi, i Castellamonte, Lanfranchi, Juvarra, Vittone, Alfieri e i loro seguaci. Anche questo è stato fatto in modo egregio. Le sale dedicate al Guarini ed al Juvarra, le scenografie deliziosamente ricostruite di quest’ultimo, rimarranno indimenticabili a chiunque si interessi di architettura. Le opere loro, nella loro vitale ed esemplare realtà, converrà ricercarle nelle strade e nelle piazze, all’aperto sui colli come Soperga, o nel chiuso dei palazzi come la Scala delle Forbici.
Ma tutta la Mostra – apertasi nell’anno centenario della morte del grande Juvarra – è come presieduta dal genio dell’architettura. I segni dell’architetto, disciplinatore di tutte le altre arti, il ritrovi nel mobile come nella cornice, nel sostegno per consolle come nella decorazione per una porta a specchi, nella composizione di un altare come nell’arredamento d’una camera da letto. È l’architettura a impersonare concretamente l’unità del gusto piemontese. E non importa se i suoi più alti rappresentanti, Guarini e Juvarra, sian venuti di fuori. L’opera coordinatrice di costoro lasciava tosto un’impronta che andava dal pittore all’arazziere, dallo stuccatore al mobiliere. Si può dire che sena il gusto di un Juvarra non avremmo Piffetti, e che un Bonzanigo non avrebbe potuto nascere se l’architettura in Piemonte non avesse così severamente permeato di sé tutte le manifestazioni dello spirito artistico.
Questa è un’altra delle ragioni dell’unità dello stile barocco piemontese. Averne dato la piena dimostrazione rimarrà un orgoglio legittimo per chi volle questa Mostra, per chi la allestì, per quanti, da S.M. il Re Imperatore ai privati, ai collezionisti, ai mercanti, concorsero a realizzare una rassegna che rappresenta uno dei più considerevoli sforzi compiuti da Torino nel campo della cultura artistica italiana.
Bernardi Marziano, La mostra del barocco a Palazzo Carignano: spirito e forme dell’arte piemontese nel Seicento e Settecento, in "Torino. Rassegna Mensile Municipale”, n. 8, agosto 1937, pp. 3-15